lunedì 23 marzo 2015

Disimpegno sociale e individualismo. Di chi è la colpa? Come ne usciamo?

Rifletto spesso sul grande disimpegno sociale e politico che caratterizza la gran parte dei giovani di oggi, per intenderci quelli nati dagli Ottanta in poi. Una generazione che sembra non avere dei sogni collettivi di trasformazione sociale, come avevano invece avuto la gran parte di quelle precedenti.
Non è mia intenzione generalizzare, dal momento che esistono ovviamente numerosi casi di ragazzi che si impegnano quotidianamente nelle associazioni, nei comitati, nei gruppi studenteschi e politici. Ma è evidente che si tratta di "mosche bianche", un'esigua minoranza di componenti di una generazione che invece, nella gran parte dei casi, non si è mai neppure posta il problema di partecipare alla vita pubblica e si disinteressa a quello che accade nel mondo attorno. Tanto meno voglio fare un ragionamento paternalistico, anche perché anagraficamente non potrei permettermelo essendo io stesso nato a metà degli anni Ottanta, inoltre non avrei nessuna autorevolezza per giudicare il comportamento dei miei coetanei. E' invece utile riflettere nell'ambito di una visione più ampia, quella delle conseguenze di medio-lungo periodo per la vita sociale, aggregativa e anche politica di un paese. Questa visione individualistica della vita in fondo è estremamente funzionale a un modello economico in cui sempre più le relazioni sono subalterne al mercato, e ancor di più a un sistema politico basato sul "leaderismo", fenomeno che a prescindere dai vari attori da ormai oltre venti anni domina la scena italiana.
Naturalmente le "colpe" del grande disinteresse non sono certo dei giovani in se' come categoria, ma risiedono in gran parte nella socializzazione alla vita pubblica che hanno ricevuto da parte di genitori nati negli anni Cinquanta o Sessanta. Essi sono stati infatti a loro volta giovani negli anni Ottanta, ovvero nel decennio del cosiddetto "reflusso", quello del grande disimpegno. Un periodo tutto sommato di "vacche grasse", di sviluppo economico e in cui sembrava di essere all'alba di un'epoca d'oro senza fine. E ovviamente hanno cresciuto i loro figli illudendoli di vivere un periodo di splendore, in cui tutto sommato le cose meglio di così non potrebbero andare e quindi tanto vale non impegnarsi nella vita pubblica e puntare invece sull'individualismo. Tutte idee che i media, prepotentemente entrati nelle nostre vite proprio nell'ultimo trentennio, avallano quotidianamente.

Banalizzando si potrebbe dire che la preoccupazione del "ventenne medio" di oggi è quella di comprare l'ultimo Iphone, l'auto più grande rispetto all'amico, magari avere la migliore borsa firmata per una ragazza o l'ultimo modello di PlayStation per un ragazzo. Tutte le altre questioni, dal lavoro che non c'è, all'istruzione che viene tagliata, sono problemi che non sembrano tangere minimamente le loro esistenze, almeno fino a quando non si trovano a fare direttamente i conti con l'"arrivare a fine mese", con la precarietà e sempre più spesso con la povertà. Ma anche a quel punto difficilmente chi ha un background "culturale" del genere potrà fare salti di qualità sul piano delle risposte. In pochi si pongono infatti il problema che le condizioni di vita di un singolo probabilmente sono molto simili a quelle di tanti altri come lui. E quindi ognuno trova solo la propria risposta individualistica al problema di "sbarcare il lunario", senza capire che solo con un'azione collettiva ci potrebbe essere davvero un salto di qualità nel miglioramento della vita di tutti.
In un quadro del genere le domande da porsi sono: come la "recuperiamo" questa generazione? Come facciamo comprendere a questi giovani che esiste una realtà al di fuori del loro stretto privato e che essa ha una pesante influenza sulle loro condizioni di vita? E ancora, come facciamo capire loro che tutto ciò non è immutabile e può essere cambiato, non solo con una svolta personale, ma anche con un azione collettiva di ribellione? Come possiamo far comprendere che la felicità non è un qualcosa che si può trovare da soli se siamo circondati da un mondo di sofferenze? Come possiamo insomma far sognare loro un altro mondo possibile?
Le risposte non sono semplici e non esistono scorciatoie. Ma credo si possano trovare, come in altri casi, nella lenta ricostruzione culturale, a partire dalle scuole ma anche dalle famiglie, facendo germogliare sempre più l'idea che il bisogno di "stare insieme" è una necessità per tutti; che in un mondo complesso come quello moderno l'individuo è insufficiente e perdente se non fa "rete" con tanti altri come lui. Insomma serve diffondere sempre più il concetto che nessuno si salva da solo.

1 commento:

  1. Perfettamente d'accordo, il problema è che non ho più la minima idea di come ripristinare la ricostruzione culturale.,
    Sono diversi decenni che siamo in una fase de demolizione culturale... e purtroppo, sempre più spesso, sento ogni sforzo vano. Nemmeno vedo segnali di inverisone di tendenza.

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