lunedì 30 marzo 2015

Politica sempre più lontana. Ripartiamo dal basso?

La "politica" in senso stretto è considerata, anche a ragione, come un qualcosa di sempre più distante dalle vite e dai bisogni delle persone comuni.
Potrà sembrare un'affermazione banale, ma in realtà è confermata dai dati del sempre maggiore astensionismo: alle ultime elezioni Europee del maggio 2014 fa partecipò circa il 58% degli elettori, mentre alle elezioni regionali del novembre segente in Calabria ha partecipato solo il 43,8% ed in Emilia-Romagna appena il 37,7%.
Questi numeri confermano che ormai la maggior parte degli italiani è stufa, sfiduciata e non si riconosce più nei partiti, visti come luogo del privilegio, della separatezza rispetto a chi vive i problemi di ogni giorno e soprattutto come soggetti impermeabili alle istanze che vengono dal basso. Anche il messaggio che i cittadini hanno dato in occasione delle ultime tornate elettorali è stato estremamente forte e chiaro: "Non ci rappresenta nessuno". 
Al tempo stesso i partiti vengono visti come soggetti che impongono sacrifici sociali alla massa dei cittadini, dall'aumento dell'età pensionabile, al taglio dei diritti e dei servizi sociali, fino a un più generico aumento indiscriminato delle tasse. Ma se è vero che ormai nel paese reale "i partiti sono partiti", nei fatti con poco o con tanto consenso essi continuano comunque a prendere le decisioni, portando avanti anzi sempre più spesso gli interessi dei poteri forti. Anzi, tutto sommato ai partiti interni al sistema sta anche bene che sempre meno persone partecipino alla vita democratica del paese, dal momento che coloro che votano sono evidentemente fedeli alle forze politiche governative e, in fondo, se i cittadini più protestatari e "anti-sistema" stanno a casa è pure meglio. Infatti così è possibile prendere le decisioni più impopolari in modo indisturbato, senza neppure preoccuparsi di deludere le aspettative sociali in chi ha espresso il voto. Insomma l'astensionismo fine a se' stesso non risolve nulla, anzi. In questa fase credo che l'urgenza sia quella di creare nuovi strumenti di democrazia dal basso e al tempo stesso occorre avere la capacità di ricostruire forme di aggregazione che rappresentino davvero chi non ha voce, ma vorrebbe impegnarsi per un reale cambiamento.

venerdì 27 marzo 2015

Strage aerea, a qualcuno avrebbe fatto più comodo se fosse stato un attentato?

Per una volta scrivo prendendo spunto da un fatto di cronaca che sta facendo molto discutere in tutta Europa negli ultimi giorni. Ovvero quello del grave disastro aereo in Francia che ha portato alla morte di 150 persone.
Ieri infatti è stata rivelata una verità inquietante, ovvero che il giovane co-pilota ha volutamente fatto schiantare l'aereo contro la montagne, approfittando dell'uscita del comandante dalla cabina di controllo e mettendo così in atto un suicidio che si è trasformato in pratica in una vera e propria strage di innocenti. Si tratta di un esito tragico e imprevedibile: eppure paradossalmente sul piano delle conseguenze sociali si può quasi tirare un "sospiro di sollievo".
Molti media avevano infatti iniziato a ipotizzare che si potesse trattare di un attentato. In cuore loro alcuni probabilmente confidavano che fosse colpa dei "soliti islamici". Qualcuno già aveva iniziato a "indagare" sulla fede religiosa o sul paese d'origine dei vari passeggeri al fine di individuare dei possibili dirottatori. Addirittura una "politica" italiana, con una domanda su un social network ai limiti dello sciacallaggio, aveva chiesto quale fosse la nazionalità di chi ha commesso la strage. Ebbene, invece si tratta di un giovane tedesco, con nessuna simpatia estremistica religiosa ma con dei problemi di depressione risalenti a sei anni fa. Insomma si è trattato di un gesto isolato, senza nessuna connotazione terroristica ne' ideologica. Ma che cosa sarebbe successo se per puro caso il pilota, senza per questo essere un terrorista, avesse avuto origini maghrebine o arabe? Semplice. Si sarebbe sollevata l'ennesima ondata islamofobica, con una scontata campagna d'odio su scala internazionale, per la grande gioia dei partiti razzisti di mezza Europa sempre pronti a soffiare sul fuoco di queste tragedie.

mercoledì 25 marzo 2015

Prescrizioni eccellenti, un segno dell'impotenza della Giustizia italiana

In questi giorni la cronaca giudiziaria si intreccia curiosamente con il dibattito politico parlamentare. 
Ha fatto molto scalpore la notizia della decisione della Corte di Cassazione di prescrivere i reati dei vari soggetti coinvolti nello scandalo di Calciopoli del 2006. Con numerosi noti dirigenti sportivi e arbitri di calcio che pur essendo stati condannati per "associazione a delinquere" nei primi gradi di giudizio, alla fine non sconteranno alcuna pena grazie appunto all'intervento della prescrizione. Per i meno esperti di temi giuridici con questo termine si intende "l'estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo". In poche parole questi soggetti erano colpevoli ma non saranno puniti solo perché ormai è passato troppo tempo (nel caso specifico 9 anni) dal momento del reato.
E' evidente che si tratta di una grande ingiustizia. Anche perché ovviamente sono sempre i soggetti più potenti e ricchi ad avere maggiori possibilità di arrivare alla prescrizione, ad esempio grazie all'abilità di avvocati super-pagati molto capaci a tirarla per le lunghe e a chiedere rinvii che allungano i tempi del processo. Insomma, come sempre una giustizia debole con i forti e forte con i deboli, visto appunto che i "poveri Cristi" magari con un legale d'ufficio non possono certo godere di simili trattamenti di favore.

lunedì 23 marzo 2015

Disimpegno sociale e individualismo. Di chi è la colpa? Come ne usciamo?

Rifletto spesso sul grande disimpegno sociale e politico che caratterizza la gran parte dei giovani di oggi, per intenderci quelli nati dagli Ottanta in poi. Una generazione che sembra non avere dei sogni collettivi di trasformazione sociale, come avevano invece avuto la gran parte di quelle precedenti.
Non è mia intenzione generalizzare, dal momento che esistono ovviamente numerosi casi di ragazzi che si impegnano quotidianamente nelle associazioni, nei comitati, nei gruppi studenteschi e politici. Ma è evidente che si tratta di "mosche bianche", un'esigua minoranza di componenti di una generazione che invece, nella gran parte dei casi, non si è mai neppure posta il problema di partecipare alla vita pubblica e si disinteressa a quello che accade nel mondo attorno. Tanto meno voglio fare un ragionamento paternalistico, anche perché anagraficamente non potrei permettermelo essendo io stesso nato a metà degli anni Ottanta, inoltre non avrei nessuna autorevolezza per giudicare il comportamento dei miei coetanei. E' invece utile riflettere nell'ambito di una visione più ampia, quella delle conseguenze di medio-lungo periodo per la vita sociale, aggregativa e anche politica di un paese. Questa visione individualistica della vita in fondo è estremamente funzionale a un modello economico in cui sempre più le relazioni sono subalterne al mercato, e ancor di più a un sistema politico basato sul "leaderismo", fenomeno che a prescindere dai vari attori da ormai oltre venti anni domina la scena italiana.
Naturalmente le "colpe" del grande disinteresse non sono certo dei giovani in se' come categoria, ma risiedono in gran parte nella socializzazione alla vita pubblica che hanno ricevuto da parte di genitori nati negli anni Cinquanta o Sessanta. Essi sono stati infatti a loro volta giovani negli anni Ottanta, ovvero nel decennio del cosiddetto "reflusso", quello del grande disimpegno. Un periodo tutto sommato di "vacche grasse", di sviluppo economico e in cui sembrava di essere all'alba di un'epoca d'oro senza fine. E ovviamente hanno cresciuto i loro figli illudendoli di vivere un periodo di splendore, in cui tutto sommato le cose meglio di così non potrebbero andare e quindi tanto vale non impegnarsi nella vita pubblica e puntare invece sull'individualismo. Tutte idee che i media, prepotentemente entrati nelle nostre vite proprio nell'ultimo trentennio, avallano quotidianamente.

venerdì 20 marzo 2015

Scuola, una riforma da bocciare

In questi giorni si parla molto di istruzione dopo che il Governo ha emanato il DDL sulla "Buona Scuola".
Credo che l'impianto di questa riforma sia negativo, sia sul piano delle ricadute concrete per chi vive nel mondo della scuola, sia sul piano culturale più complessivo.
Una delle principali novità di questa riforma sarà l'enorme potere che verrà dato ai dirigenti scolastici. In pratica i Presidi diventerebbero dei "manager" con in mano due elementi fondamentali. Da un lato avranno la possibilità di scegliere direttamente il personale docente del proprio istituto, introducendo una "chiamata diretta" fra i membri di un Albo; il tutto appare ai limiti della costituzionalità e anche nella sostanza è facile immaginare dove potrebbe portare una modalità di assunzioni del genere, specie in un paese clientelar-familista come l'Italia. Dall'altro lato i Presidi avranno maggiori poteri sulla didattica, potendo quindi di fatto entrare nel merito degli argomenti insegnati. Quest'ultima prerogativa finora è di competenza del "collegio dei docenti", ovvero di un organo più ampio in cui i vari insegnanti possono far pesare le proprie idee e la propria visione culturale; esso invece con la riforma avrebbe solo un ruolo consultivo. In sostanza si avrebbe il depotenziamento degli organi collegiali (es. rappresentanze studentesche e dei genitori) con la fine della "democrazia scolastica". Si tratterebbe, anche simbolicamente, della fine della partecipazione dal basso all'interno della scuola, ovvero di uno dei motori culturali del paese. 
Altro aspetto molto controverso sarà quello del finanziamento alle scuole private. Già adesso, fra finanziamenti diretti e indiretti, il mondo delle "scuole paritarie" di ogni ordine e grado riceve circa 700 milioni di euro annui. Il tutto nonostante l'articolo 33 della Costituzione dica chiaramente che i "privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Dispositivo costituzionale che viene violato praticamente da ormai alcuni decenni sia a livello nazionale che nei territori locali. Ma con questa riforma vi sarebbe un ulteriore passo avanti (o meglio, indietro). Infatti è prevista la possibilità per ogni cittadino di devolvere il proprio 5 x 1000 a una singola scuola privata, la quale quindi potrà incamerare nuove risorse direttamente dai contribuenti.
Inoltre poco o niente di concreto viene proposto per combattere realmente due piaghe come la precarietà dei docenti e l'eccessivo numero di ragazzi per classe, così come non ci sono misure per snellire le interminabili liste di attesa per l'accesso agli asili nido pubblici e alle scuole dell'infanzia.

mercoledì 18 marzo 2015

Raccomandazioni e clientele, una normalità che spaventa

Sta facendo molto discutere nelle ultime ore, nell'ambito di un'inchiesta giudiziaria sui grandi appalti, il fatto che il figlio di un Ministro in carica sia stato assunto da uno degli imprenditori poi arrestati per corruzione. Non voglio entrare nel merito di questa vicenda, però prendo spunto da tale notizia per una riflessione più ampia sulle raccomandazioni e sul nepotismo.
Se tutti sanno cosa è una raccomandazione, credo sia necessario precisare il significato di "nepotismo": la tendenza, da parte di detentori di autorità o particolari poteri, a favorire i propri parenti indipendentemente dalle loro reali abilità e competenze. Esso è un retaggio medioevale utile come auto-protezione delle caste e delle corporazioni, nel quale evidentemente il talento e il merito contano poco o nulla per avere un incarico.
Si tratta di due fenomeni sociali strettamente legati fra loro che contribuiscono al sempre maggiore declino economico, sociale e culturale di questo paese. Risulta sempre più evidente, da diverse inchieste, quanto spesso la concessione di posti di lavoro a persone vicine a un potente, possa aiutare ad esempio ad ottenere appalti o favori di varia natura. In questi casi la raccomandazione si intreccia con il clientelismo e diventa ovviamente illegale.
Ci sono altri casi nei quali invece il confine è più sottile, vedi il caso di un’università italiana dove tempo fa si è “scoperto” che madri, padri, figli, zii e nipoti avevano cattedre e collaborazioni nello stesso Ateneo. Situazioni che ovviamente non premiano la qualità della ricerca accademica e che incentivano sempre più giovani, preparati ma non "appoggiati", a cercare fortuna all'estero.
Oppure cosa vogliamo dire dei parenti (o amici) di personaggi politici, legati a un qualsiasi partito di governo, che vengono collocati lavorativamente nel "sottobosco" della politica oppure assunti in pubbliche amministrazioni, magari bypassando graduatorie e concorsi, grazie a "chiamate dirette" (peraltro spesso incostituzionali) o a consulenze spesso inutili?

lunedì 16 marzo 2015

Dalla "lotta di classe" alla "guerra fra poveri", come invertire la tendenza?

Un tempo, praticamente fino all'ultimo decennio del Novecento, si parlava molto spesso anche sui media di conflitto sociale e di lotta di classe, visti come un momento dialettico nel quale le classi principali si fronteggiavano con avanzamenti e arretramenti reciproci. Ad esempio, lo Statuto dei lavoratori ottenuto in Italia nel 1970 fu un avanzamento della classe lavoratrice a culmine delle lotte degli anni Sessanta, così come invece l'abolizione della scala mobile del 1984-85 fu un'arretramento oggettivo, segnando l'inizio di una serie di sconfitte per il mondo del lavoro.
Oggi però, e da diversi decenni a questa parte, non si può più parlare compiutamente di "lotta di classe" come storicamente è stata intesa in passato. Intanto per la trasformazione e segmentazione del lavoro che ha avuto come conseguenze il fatto che le persone, pur svolgendo lo stesso lavoro, si trovano ad avere contratti e trattamenti salariali diversi che non li pongono nelle stesse condizioni, a tal punto da non farli più sentire davvero sulla stessa barca. A questo possiamo aggiungere la crisi dei sindacati, che rappresentano una fetta sempre minore dei lavoratori, anche a causa di troppe connivenze a cui negli anni si sono spesso prestati.
Se non esiste più la lotta di classe in senso stretto, esiste però la "lotta sulla classe", ovvero l'attacco che i poteri forti continuano, con una lenta impazienza, a portare avanti contro il mondo del lavoro. La riforma pensionistica Fornero del 2012 e poi l'approvazione del Jobs Act a fine 2014 sono due chiare dimostrazioni in tal senso. Provvedimenti che non hanno incontrato una reale capacità dei movimenti di lavoratori di mettere in campo forme di lotta efficaci.

venerdì 13 marzo 2015

Lavorare gratis, la nuova frontiera dello sfruttamento

Sta facendo molto discutere la notizia che alla prossima Expo che da maggio prenderà il via a Milano ci saranno migliaia di giovani che lavoreranno gratis.
Lo dico subito, culturalmente prima ancora che sul piano economico, tutto questo è una sconfitta. Una sconfitta per chi, da secoli, lotta per i diritti del lavoro e per un salario equo. Così come è un grave danno per le aspettative dei milioni di giovani precari che popolano questo paese. Se passa il messaggio che qualcuno è pronto a lavorare gratis, è abbastanza semplice ipotizzare che ben presto (e già avviene troppo spesso), questa pratica si potrebbe diffondere sempre di più.
Qualcuno afferma che il lavoro all'Expo sarebbe equiparabile al volontariato. Io non penso che si possa azzardare un paragone simile. Il volontariato è una cosa seria. Non si è mai visto invece un volontariato fatto nella reggia di multinazionali che hanno speso miliardi di euro per una kermesse, dove si parla di "Nutrire il pianeta" ma intanto si crea un eco-mostro di 500 Kmq, imponendo cementificazione e consumo di suolo.
Uscendo dal tema Expo e parlando in generale, non è certo la prima volta che, in modo più subdolo e frammentato, in questo paese si "lavora gratis". Come possiamo chiamare altrimenti i tanti tirocinii e stage, spesso tutt'altro che formativi, che in qualsiasi settore economico vengono proposti a migliaia di giovani ogni giorno? Il tutto con l'illusione poi di un contratto a progetto, il quale forse potrebbe trasformarsi in un contratto a tempo indeterminato che, nel 99% dei casi non arriverà mai. 
Non è questo il luogo per fare riflessioni troppo approfondite su quanto sia degradante il mondo del lavoro italiano degli ultimi anni. Peraltro non solo per colpa di "imprenditori cattivi", ma anche di una politica e di alcuni sindacati conniventi con chi ha voluto dequalificare i diritti del lavoro. Ma almeno mettiamoci d'accordo su una cosa: lavorare gratis è un autogol clamoroso per tutti.

mercoledì 11 marzo 2015

Riforme istituzionali, poche luci e molte ombre

In questi giorni si parla molto di "riforme istituzionali", dopo che la Camera ha approvato la proposta del Governo. Una riforma costituzionale che per entrare in vigore avrà ancora bisogno di tempo: serve una seconda approvazione da parte dei due rami del parlamento e poi, nel caso in cui essa non avvenga con la maggioranza qualificata dei 2/3 ci sarà un Referendum popolare confermativo, quindi senza quorum, in cui i cittadini avranno l'ultima parola.
A mio modesto parere questa riforma contiene molte ombre e solo qualche luce. Tralascio le implicazioni più strettamente politiche e autoreferenziali fra i gruppi politici ("Patto del Nazzareno" e spaccature interne ai partiti), ma vorrei soffermarmi sulle conseguenze concrete per le istituzioni.
Comincerei a parlare degli elementi a mio avviso positivi. Fra questi credo possa rientrare la modifica relativa ai Referendum, per i quali ci sarebbero due distinti quorum. Se saranno raccolte 500.000 firme la consultazione per essere valida necessiterà della partecipazione al voto del 50% +1 degli aventi diritto (quindi come adesso), mentre se saranno raccolte almeno 800.000 firme il quorum si abbassa sensibilmente alla metà dei votanti alle ultime elezioni politiche per la Camera. Una novità di buon senso, in modo che solo i cittadini che hanno veramente interesse alla cosa pubblica possano incidere nella riuscita di un quesito referendario e i contrari non potranno affidarsi all'effetto "qualunquismo". Al tempo stesso non sarebbe poi così negativo l'innalzamento da 50.000 a 150.000 le firme necessarie per una "proposta di legge di iniziativa popolare", a patto che appunto quando essa è depositata ci siano dei tempi certi e rapidi nella discussione da parte delle Camere di proposte provenienti direttamente dai cittadini.
Passiamo adesso ai lati negativi della riforma, che sono molti. Intanto da un punto di vista della forma: è possibile che una riforma di simile importanza venga approvata da un Parlamento che, secondo la Corte Costituzionale, è stato eletto con una legge incostituzionale come il Porcellum?
Ammesso e non concesso che ciò sia lecito o opportuno, proviamo ad entrare nel merito della riforma. La novità a mio avviso più grave sta nel fatto che il Senato non sarà più eletto direttamente dal popolo attraverso le elezioni, ma diventerebbe un organo di secondo grado, composto da nominati. In particolare tre i 100 nuovi senatori ve ne sarebbero 5 di nomina del Presidente della Repubblica; altri 74 scelti da parte delle Regioni all'interno dei membri dei consigli regionali e altri 21 saranno infine Sindaci, espressione uno di ciascuna Regione. Tutto questo svilisce l'istituzione Senato, mortifica il diritto di voto dei cittadini e soprattutto è scorretto sul piano della rappresentatività sia delle forze politiche sia dei vari territori. Mi spiego meglio: ogni consiglio regionale nominerà da un minimo di 2 a un massimo di 5 senatori, è evidente che essi saranno scelti solo fra i gruppi politici maggiori, determinando una sotto-rappresentanza di partiti che magari hanno un discreto consenso (anche del 10-15%) uniforme in tutte le regioni, ma che potrebbero essere del tutto estromessi dal nuovo Senato. Inoltre particolarmente sbagliata è la decisione di selezionare 21 sindaci: essi saranno sicuramente espressione delle città più grandi (probabilmente capoluoghi regionali), discriminando così i milioni di cittadini che vivono nei comuni medio-piccoli. Nel complesso si tratta di una svolta iper-maggioritaria, soprattutto se vi sarà l'approvazione di una legge elettorale come l'Italicum attualmente in discussione.

lunedì 9 marzo 2015

Dal "cambiamento del mondo" al clientelismo, evoluzione e crisi di un sistema di potere

Vorrei sviluppare in questo post un tema citato anche nella mia recente tesi di laurea. Si tratta della crisi irreversibile della cosiddetta "subcultura rossa", ovvero dell'insieme di quelle strutture sociali, economiche, associative e culturali che nella seconda metà del Novecento, nelle regioni del centro Italia, erano state un importante punto di riferimento dei partiti della sinistra al fine di accrescere e mantenere il proprio consenso.
Da allora il mondo è cambiato profondamente: gli eredi dei soggetti politici che avevano l'obiettivo di rappresentare i lavoratori e i più deboli in generale, hanno subito una trasformazione molto profonda. Essi non sono più i portatori di un'altra visione dell'economia e della società. Non vogliono più "cambiare il mondo", ma limitarsi a gestire l'esistente. Anzi, da ormai due decenni, sono corresponsabili di scelte economiche che hanno peggiorato la vita della maggior parte delle persone, con privatizzazioni, scempi ambientali e favori ai poteri forti. Sono sempre loro i corresponsabili della crisi della politica che ha fatto perdere a molti la speranza che cambiare si può. Il fatto che tali soggetti, in questo quadro, continuino a usare strumentalmente le fitte reti associative costruite in altre epoche (composte da tantissime persone in buona fede ma purtroppo guidate da soggetti spesso calati dall'alto), è solo un maldestro tentativo di riprodurre le proprie posizioni fatte di piccoli privilegi e clientele. Il problema è che in alcuni territori riescono ancora a mantenere la devozione di una fetta della popolazione, soprattutto fra i meno giovani. 
Un tempo queste strutture erano chiamate anche "cinghie di trasmissione" e venivano usate dai partiti per fare egemonia sociale e culturale, provando a rappresentare in piccolo un modello di società alternativo. Sono stati tutti strumenti importanti e positivi per decenni, specie quando il partito di riferimento era stabilmente all'opposizione e aveva in mente un altro modello di società. Oggi però che il "partito" ha subito una vera e propria mutazione genetica e magari si trova al Governo del paese attuando politiche anti-sociali, tali strutture hanno per ovvi motivi perso la funzione di contro-potere che localmente ha avuto un senso a lungo. Al contrario rischiano di essere sempre più un modo per ricollocare il ceto politico uscito dalla cariche istituzionali, strumentalizzando l'utilissimo lavoro che dal basso tanti attivisti e volontari genuini svolgono disinteressatamente.

venerdì 6 marzo 2015

Obiettivi intermedi e capacità di incidere, riflessioni sull'importanza di "ottenere risultati"

C'è una questione su cui è opportuno riflettere, soprattutto da parte di chi fa attività sociale e politica dal basso al di fuori dei soggetti tradizionali, ma sulla quale spesso si evita di soffermarci.
Si tratta dell'importanza di riuscire a portare a casa dei risultati, magari parziali, intermedi, forse pure insufficienti a risolvere un problema più ampio, ma comunque importanti per aumentare la motivazione di un gruppo, per produrre un senso di gratificazione negli attivisti stessi e anche per radicare il soggetto in questione facendolo percepire come socialmente utile da parte della collettività. Magari dando pure una piccola spallata agli "avversari". 
E' una riflessione necessaria ad esempio per i movimenti di massa come quello studentesco, che a più riprese in Italia ha avuto delle avanzate (ricordiamo nell'ultimo decennio le grandi mobilitazioni su scala nazionale del 2005, del 2008 e del 2010) a cui sono poi corrisposti dei lunghi "riflussi" fatti di rassegnazione e disaffezione da parte di chi tanto si era speso nelle lotte. Spesso questi movimenti sono sorti per fermare una riforma ministeriale, ma una volta che l'obiettivo principale si dimostrava irraggiungibile, la maggior parte degli studenti "tornava a casa". Ecco, se invece ci fosse stata la capacità di darsi degli obiettivi intermedi e di provare a vincere, magari sul piano locale, per ottenere dei miglioramenti concreti alle condizioni di vita degli studenti, probabilmente quei movimenti non avrebbero prodotto delusione, ma appunto una maggiore consapevolezza che, in base ai rapporti di forza che si sanno creare con la lotta, qualcosa si può cambiare.
Lo stesso discorso è ancora più vero per i soggetti strettamente "politici". Non parlo dei partiti classicamente intesi, che sono parte del problema, con le loro modalità spesso spregiudicate di adattarsi a situazioni poco chiare e comprensibili per i cittadini. Parlo invece dei soggetti nati dal basso, come liste civiche, movimenti di quartiere o associazioni politico-culturali, che sempre più spesso sorgono in giro per l'Italia.

mercoledì 4 marzo 2015

Capitali in fuga, come fermarli?

Mi ha molto colpito, anche se sicuramente non stupito, la notizia delle settimane scorse sulla scoperta dei numerosi milionari (fra essi anche 7500 italiani) che avevano nascosto ingenti capitali in conti segreti in Svizzera, evidentemente per sottrarli alla tassazione dei rispettivi paesi, fra i quali l'Italia. Non si tratta certo della prima volta, nel 2008 ci fu ad esempio un analogo caso di soggetti che avevano portato le proprie ricchezze in Lichteinstein, così come ormai sono proverbiali i depositi alle Cayman, le residenze formali a Montecarlo o in altri paradisi fiscali. Per avere un'idea dei numeri si calcola che nei soli due mesi di agosto e settembre 2014 dall'Italia sono usciti ben 67 miliardi di euro, una cifra pari a 4/5 manovre Finanziarie dello stato.
Ma al di là di questi casi, compiuti da soggetti che operano in gran parte oltre la legalità, c'è anche un altro tipo di delocalizzazione dei capitali internazionali del tutto legale, ma comunque socialmente deprecabile. Ovvero la prassi delle imprese di spostare la sede legale e quella fiscale dal paese di origine in stati più agevoli sul piano fiscale e della libertà di licenziare. Il caso più noto è stato quello della FCA (il nuovo nome della FIAT), che pur essendo operativa per la maggior parte negli USA e in Italia (con stabilimenti anche in altri paesi in via di sviluppo) ha deciso di insediare la propria sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. Ma purtroppo tante altre aziende stanno seguendo l'esempio.
Insomma siamo di fronte a un continuo spostamento di capitali e di risorse dai paesi dove avviene sostanzialmente la vera attività economica, per sottrarli alla tassazione; la quale, è sempre bene ricordarlo, è utile e necessaria per ricavare risorse pubbliche necessarie ai servizi per la collettività. 
Di fronte a tutto questo è difficile muoversi anche per una politica che non volesse essere connivente e subalterna alle lobby. Ma qualcosa si può fare, se ci fosse una vera volontà. Vediamo come.

lunedì 2 marzo 2015

Debito pubblico, una trappola da cui sfuggire

Da ormai diverso tempo ci ripetono ossessivamente che il debito pubblico italiano è troppo alto e quindi va tagliato in qualsiasi modo, a costo di togliere fondi alla sanità, alla scuola, alla gestione dei beni comuni e dei servizi pubblici. 
Una grande operazione comunicativa di massa ci spinge sempre più a pensare che i cittadini avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità e creando quindi una massa enorme di debiti, da cui possiamo liberarci solo svendendo il "patrimonio di famiglia", magari a qualche grande gruppo multinazionale che ovviamente non vede l'ora di potersi accaparrare a cifre irrisorie settori strategici dell'economia nazionale. Come proverò a illustrare, questa idea si tratta di una "trappola".
In particolare la grande esigenza di ridurre il debito deriverebbe dalla necessità di rispettare i parametri di Maastricht: rapporto deficit/PIL al 3% e rapporto debito/PIL al 60%. E' proprio su quest'ultimo che mi soffermerei, ovvero sul debito accumulato negli anni. Andiamo a vedere più da vicino come esso si è evoluto, soprattutto in termini percentuali. Nel 1980 il rapporto era appena del 58%, l'anno seguente nel 1981 vi fu la storica "separazione" fra la Banca d'Italia e il Ministero del Tesoro e quindi essa smise di comprare i titoli di stato, facendo crescere gli interessi sul debito. Nel 1994, ad epilogo del decennio di "spendi e spandi", ma anche soprattutto in seguito ad interessi molto più alti che l'Italia si trovò a pagare rispetto agli altri stati europei, il rapporto era salito al 124%. Numeri che indussero subito a pesanti privatizzazioni, le quali hanno ridotto il rapporto al 103%, un dato rimasto costante dai primi anni Duemila e fino al 2008. Da quell'anno è iniziato di nuovo ad aumentare fino ad arrivare nel 2014 al 135%, pari a circa 2.100 miliardi di euro. Il perchè di questo aumento negli ultimi sette anni? Non certo per i grandi investimenti statali a favore della collettività, ma piuttosto per l'abbassamento del denominatore (ovvero del PIL, a causa della crisi) e soprattutto per l'aumento stesso del debito assoluto, a causa degli interessi appunto sempre crescenti.
Diciamolo, realisticamente è impossibile pagare un debito di proporzioni simili, con degli interessi galoppanti, che malgrado tagli alla spesa e privatizzazioni, continua sempre a crescere.