lunedì 16 marzo 2015

Dalla "lotta di classe" alla "guerra fra poveri", come invertire la tendenza?

Un tempo, praticamente fino all'ultimo decennio del Novecento, si parlava molto spesso anche sui media di conflitto sociale e di lotta di classe, visti come un momento dialettico nel quale le classi principali si fronteggiavano con avanzamenti e arretramenti reciproci. Ad esempio, lo Statuto dei lavoratori ottenuto in Italia nel 1970 fu un avanzamento della classe lavoratrice a culmine delle lotte degli anni Sessanta, così come invece l'abolizione della scala mobile del 1984-85 fu un'arretramento oggettivo, segnando l'inizio di una serie di sconfitte per il mondo del lavoro.
Oggi però, e da diversi decenni a questa parte, non si può più parlare compiutamente di "lotta di classe" come storicamente è stata intesa in passato. Intanto per la trasformazione e segmentazione del lavoro che ha avuto come conseguenze il fatto che le persone, pur svolgendo lo stesso lavoro, si trovano ad avere contratti e trattamenti salariali diversi che non li pongono nelle stesse condizioni, a tal punto da non farli più sentire davvero sulla stessa barca. A questo possiamo aggiungere la crisi dei sindacati, che rappresentano una fetta sempre minore dei lavoratori, anche a causa di troppe connivenze a cui negli anni si sono spesso prestati.
Se non esiste più la lotta di classe in senso stretto, esiste però la "lotta sulla classe", ovvero l'attacco che i poteri forti continuano, con una lenta impazienza, a portare avanti contro il mondo del lavoro. La riforma pensionistica Fornero del 2012 e poi l'approvazione del Jobs Act a fine 2014 sono due chiare dimostrazioni in tal senso. Provvedimenti che non hanno incontrato una reale capacità dei movimenti di lavoratori di mettere in campo forme di lotta efficaci.

Anche perché, per dirla con Marx, se esiste ancora la "classe in sè" (ovvero l'insieme delle persone sottoposte a una stessa condizione lavorativa), esiste sempre meno il concetto di "classe per sè" (ovvero la coscienza dei membri di far parte di un soggetto collettivo, che se fosse in grado di battersi unitamente potrebbe ottenere miglioramenti per tutti gli appartenenti).
Neppure la crisi economica degli ultimi sette anni ha contribuito ad aumentare elementi solidaristici fra chi lavora, anzi si è innescato al contrario un meccanismo da "si salvi chi può" e "meglio che tocchi a te piuttosto che a me".
Insomma, chi lavora continua a subire da anni attacchi quotidiani alle proprie condizioni di vita, ma ormai anche grazie a fattori culturali e comunicativi che si sono lentamente insinuati (servirebbe una riflessione più profonda in tal senso) è pressoché scomparsa in Italia una qualsiasi prospettiva di resistenza e inversione di marcia. E' rimasta in gran parte l'invidia della massa per il "più ricco", che però è fine a se' stessa dal momento che manca la capacità di comprendere che tale ricchezza smisurata di pochi è in gran parte legata, oltre a fenomeni di disonestà individuali (molto diffusi in questo paese), anche a un più banale sfruttamento sociale del lavoro, oltre che a una sempre maggiore tendenza alle speculazioni. Viceversa è stata alimentata una "guerra fra poveri". Si è innescata quasi una incomprensibile "invidia verso il più povero", nella quale magari un lavoratore italiano vede come un privilegio il fatto che un immigrato possa avere un piccolo contributo per vivere in un'abitazione ai limiti della decenza e dell'umanità. In pratica il penultimo della classe che invidia l'ultimo. Insomma "Divide et impera", direbbero i latini.
Una riflessione su questa inversione simbolica e culturale sarebbe necessaria, anche per provare a far capire a questo lavoratore e a questo immigrato che la loro povertà ha delle cause comuni: i profitti, le rendite, le speculazioni e i privilegi dei soliti. Solo comprendendo che essi sono il cuore del problema, sarebbe possibile invertire la tendenza e tornare a batterci, tutti insieme, per una migliore ripartizione delle risorse e il miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte dei membri della società.

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