lunedì 9 maggio 2016

Grecia e Austria, la dimostrazione delle contraddizioni dell'Unione Europea

Come mai quando l'Unione Europea pretende che un paese come la Grecia applichi austerità e ricette economiche liberiste, riesce a imporre sempre ciò che vuole, mentre quando uno stato come l'Austria costruisce una barriera alla propria frontiera, le istituzioni europee non vanno oltre a qualche critica di facciata, ma nei fatti non intervengono?
In queste ultime settimane si sta assistendo in modo plastico alle contraddizioni e alla crisi dell'Unione Europea, proprio alla vigilia del referendum sulla possibile "Brexit", ovvero l'eventuale uscita della Gran Bretagna dall'unione.
Le reazioni dell'UE su quanto sta accadendo in quest'ultimo periodo in Grecia e in Austria stanno infatti lì a dimostrare un "doppiopesismo" che lascia davvero poco spazio alle interpretazioni su quali siano i veri interessi difesi da parte delle istituzioni comunitarie.
Il paese greco da ormai un anno e mezzo è costretto a riforme economiche sempre più dure e antisociali imposte dai burocrati europei che vincolano questi sacrifici alla concessione di nuovi prestiti finanziari: imposizioni che l'UE attua freddamente senza battere ciglio pur di veder rispettate le politiche economiche europee, fondate sul pareggio di bilancio e sul rispetto dei patti di stabilità.
Quando invece uno stato membro, come l'Austria, avvia la costruzione di una barriera al proprio confine (con l'Italia) per impedire l'accesso al proprio territorio da parte di migranti e rifugiati, nonostante ciò sia in aperta violazione di uno storico accordo europeo come quello di Schengen, l'UE non va oltre a qualche dichiarazione formale di contrarietà e adduce parte delle criticità al fatto che in tal caso le merci viaggerebbero più lentamente; facendo trasparire peraltro una logica del tutto mercantilista anche nel contesto di una critica che dovrebbe essere in primo luogo di tipo sociale.
Sembra quasi che si tratti di "due UE diverse", una rigida e ferrea quando si rischia che le scelte di un paese mettono a rischio la moneta unica e una invece permissiva e incapace di rispondere a uno stato che adotta una politica frontaliera in contraddizione con i principi comunitari.
E quindi, a proposito di "valori europei", è quindi più importante l'ossequiosa osservazione dei vincoli di bilancio rispetto alla libertà di circolazione degli esseri umani? Che fine hanno fatto invece i valori di pace, libertà e giustizia sognati dai padri costituenti dell'Europa unita? 

lunedì 21 marzo 2016

Chi ama il mare, il 17 aprile va a votare

In molti non lo sanno ancora, ma domenica 17 aprile si vota in tutta Italia per il referendum.
Si tratta di una consultazione che punta ad abrogare una legge che proroga potenzialmente "all'infinito" la concessione a trivellare a favore delle grandi compagnie petrolifere, ma che in sostanza parla del modello di sviluppo e del futuro energetico di questo paese.
Entrando nel dettaglio del tema, se vince il Sì le concessioni per la trivellazione (tecnicamente sarebbero le "attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi") entro le 12 miglia marine per le compagnie arriveranno alla scadenza naturale già fissata e poi si concluderanno. Viceversa se non sarà raggiunto il quorum (o se prevalessero i No) alle compagnie petrolifere verranno prorogate le concessioni già in vigore. Insomma è un regalo davvero inatteso per lobby e multinazionali del settore, che in molti casi avevano stipulato dei contratti ventennali e si sono ritrovate invece, dopo lo Sblocca Italia, ad avere diritto ad uno sfruttamento sino all'esaurimento del giacimento.
E' importante sottolineare che anche in caso di vittoria dei Sì le conseguenze non sarebbero immediate, poiché quello che viene abrogato è semplicemente l'allungamento dei tempi di estrazione. Invece non si andrebbero a cancellare i contratti già in vigore, che arriverebbero quindi alla propria scadenza già fissata al momento della firma del contratto. E' importante precisarlo, anche per "tranquillizzare" chi sta agitando lo spettro della disoccupazione dei lavoratori del settore. Per arrivare alla chiusura materiale di un impianto servirebbero infatti in media fra i 5 e 10 anni. Una tempistica del tutto compatibile con la possibilità di riconvertire le economie locali e nazionali. E che anzi incentiverebbe a investire in un modello energetico rinnovabile e ad alto tasso di occupazione di manodopera; da questo punto di vita è sintomatico notare come negli USA nel 2015 si sono creati oltre 200 mila nuovi posti di lavoro nel fotovoltaico, ovvero il 77% in più rispetto a quelli del settore carbone fossile.